Jim Thompson
Nel settembre del 1952, quando la Lion Books pubblica direttamente in edizione tascabile L’assassino che è in me, Jim Thompson ha quarantaquattro anni, un alcolismo ormai cronico, tre romanzi di nessun successo alle spalle. Nato nel 1908 ad Anadarko, Oklahoma, ha vissuto, attraverso le gesta del padre, sceriffo, avvocato, politicante, speculatore petrolifero, fallito cronico, l’intera traiettoria del capitalismo americano di inizio secolo, fino al suo crollo nel 1929. Per mantenere la famiglia d’origine e poi quella acquisita, è stato costretto a una serie interminabile di mestieri, che lo hanno portato a stretto contatto con il campionario di reietti che popolerà i suoi libri: sindacalisti e vagabondi, piccoli gangster e sceriffi, prostitute e bigotte. All’inizio degli anni Trenta è entrato in contatto – dopo una breve esperienza da studente universitario e aspirante poeta – con il mondo delle riviste pulp, scrivendo soprattutto storie romanzate di delitti realmente avvenuti e pubblicandole su periodici come True Detective. È poi entrato nel Federal Writers’ Project, arrivando a dirigere la sezione dell’Oklahoma; in quel periodo, con ogni probabilità, ha aderito al Partito comunista americano. Proprio dall’incontro tra Marx e Freud, tra l’esplorazione del capitalismo americano e dei suoi mali e la capacità di calarsi negli orrori e nelle dissociazioni della mente umana, Thompson trae la linfa vitale che scorre in tutti i suoi romanzi, a cominciare da Now and on Earth, scritto – vuole la leggenda – in una squallida stanza d’albergo di New York, nell’arco di tre settimane vissute in un perenne stato di stupore alcolico. Chiamato a elencare i suoi modelli letterari, Thompson si limiterà sempre a citare due libri, letti e riletti per tutto il corso della sua vita: Il Capitale e Edipo Re. La forza eversiva di Thompson, la sua capacità di evocare le mille distorsioni del sogno americano, si esaltano e trovano libero spazio nella formula del paperback dei primi anni Cinquanta, nel rapporto con un’industria che lo paga poco ma regolarmente e che accetta i suoi prodotti senza troppe domande e con ancor meno costrizioni. Nel giro di cinque anni, dal 1952 al 1957, Thompson pubblica qualcosa come quindici romanzi, di cui almeno sei (L’assassino che è in me, Notte selvaggia, A Swell-Looking Babe, A Hell of a Woman, The Nothing Man, È già buio, dolcezza) sono considerati dalla critica tra le espressioni più perfette del noir. Nel 1955, Stanley Kubrick, che ha letto L’assassino che è in me e lo considera “il piú grande romanzo su una mente criminale che sia mai stato scritto”, assolda Thompson come sceneggiatore per Rapina a mano armata, tratto da un romanzo di Lionel White. L’esperienza viene poi ripetuta due anni più tardi, con Orizzonti di gloria. Benché entrambi i film lascino il segno – e valgano a Kubrick una meritata fama – Thompson non riesce a sfondare a Hollywood, né come sceneggiatore (produrrà solo qualche script televisivo), né come romanziere (dovrà attendere il 1972 perché un suo libro, Getaway, venga portato sugli schermi). Sempre più segnato dall’alcolismo, scrive in modo ormai sporadico, ma riesce ancora a estrarre dal cilindro almeno tre capolavori: lo stesso La fuga, nel 1959, I truffatori nel 1963 (da cui Stephen Frears ha tratto il fortunato Rischiose abitudini, forse la miglior trasposizione da Thompson) e Colpo di spugna nel 1964 (anch’esso tradotto in film da Bertrand Tavernier). Un breve cameo-omaggio nel film Marlowe, poliziotto privato (1975) di Dick Richards, lo ritrae a fianco di Robert Mitchum, due anni prima della morte, nel 1977. Thompson in quel momento è completamente dimenticato nel suo paese – dove i suoi romanzi rimarranno fuori stampa ancora per diversi anni, prima della riscoperta – ma oggetto di un tenace culto in Europa, e soprattutto in Francia.
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